• Quei muri, esempi disgustosi di una generazione perduta

    Quei muri, esempi disgustosi di una generazione perduta

    Che brutto esempio.

    La Gran Bretagna costruirà un muro alto 4 metri e lungo più di 1km, nei pressi di Calais, vicino al “The Jungle”, il campo profughi a nord della Francia. Non so come abbia potuto, il Governo francese, permettere la sua costruzione.
    Donald Trump, dall’altra parte dell’Atlantico, vuole costruire un muro tra Stati Uniti e Messico.
    Al Brennero l’Austria schiera più di 2000 soldati al confine e sospende la disponibilità per l’accoglienza dei profughi.

    La mia generazione sta ricevendo esempi disgustosi da quella precedente, quella dei nostri genitori. Esempi di intolleranza, di populismo forsennato, di ignoranza e piccolezza umana che assocerei, con molta facilità, ai periodi più bui della nostra Storia.

    Salviamoci! Salviamoci da tutto questo! Guardiamoci allo specchio, piuttosto. Ma non guardiamo coloro che oggi governano con tanto odio e tanta paura del prossimo.


  • Bonus cultura per neo 18enni: come funziona, come spenderli

    Bonus cultura per neo 18enni: come funziona, come spenderli

    Dal 15 settembre sarà a disposizione di tutti i ragazzi che abbiano compiuto 18 anni nel corso del 2016 il «Bonus Cultura » da 500 euro, una misura attivata dal Governo, prevista nella legge di Stabilità, volta a favorire e a sostenere la cultura.

    incentivo-900

    Potranno servirsi e godere del Bonus 574.593 giovani italiani e stranieri, residenti in Italia con regolare permesso di soggiorno, che attraverso la piattaforma digitale apposita, potranno spendere tra mostre, concerti, Libri eBook (di ogni genere, non solo scolastici), ingressi a musei, aree archeologiche, biglietti per concerti, cinema, spettacoli teatrali, mostre, fiere, parchi naturali ed eventi, il credito erogato.

    Con la registrazione tramite uno dei cinque identity provider accreditati (Tim, Poste, Aruba, Infocert e Sielte), ottenuto lo “Spid” (sistema pubblico per la gestione dell’identità digitale) si potrà scaricare l’app, strumento attraverso il quale gestire gli acquisti e consultare non solo gli eventi ma anche il saldo del bonus, dai siti appositi (www.18app.it oppure www.diciottapp.it) sul portale dedicato e ricevere le credenziali per accedere a tutti i servizi online degli enti convenzionati.

    Per ogni operazione di acquisto verrà creato un voucher e l’importo non sarà scalato dal credito fino alla sua fruizione. Il voucher può essere utilizzato con duplice modalità ovvero o per l’acquisto in forma digitale oppure per l’acquisto in forma tradizionale, andando personalmente in libreria, in un museo o in un teatro e per questa seconda opzione le procedure previste posso essere diverse : il voucher può essere salvato su smartphone, tablet o pc, oppure stampato e portato direttamente e personalmente in libreria o al cinema oppure può essere anche visualizzato con un «qr code» o come un «bar code» da mostrare all’esercente.

    Oggi è difficile far capire quanto sia importante diffonde e sostenere la cultura, sempre più sacrificata, posposta, ma questa iniziativa, questo progetto dal chiaro obiettivo e intento culturale, che vanta come interlocutore principale una giovane generazione, ha il potere di farci capire una volta per tutte quanto per tali consumi culturali della nuova società, sia sempre necessario investire tempo, denaro e progetti.

    Un’iniziativa che stanzia e investe 290 milioni di euro nei settori della cultura e delle politiche giovanili; una misura che sostiene e aiuta i consumi delle famiglie a più basso reddito, dando anche a quest’ultime la possibilità, l’opportunità di avvicinarsi più facilmente, di usufruire e di consumare la cultura.

    [button-red url=”https://www.18app.italia.it” target=”_blank” position=””]VAI AL SITO 18APP.IT[/button-red]


  • Oltre ai fiori che cosa c’è?

    Oltre ai fiori che cosa c’è?

    Ventotene, 22 agosto 2016. Tre leader europei. Due socialisti e una popolare – due visioni politiche differenti dell’Europa – appongono fiori sulla tomba del padre del sogno della Federazione europea, nel luogo in cui tutto ebbe inizio: l’isola del confino, in cui Spinelli, assieme a Rossi, Colorni e Hirschmann si ritrovarono, forse per caso, a sognare ciò che oggi arrancando cerchiamo di realizzare, seppur parzialmente.

    Quanta strada ancora c’è da fare, eppure quei fiori vogliono significare qualcosa, ma cosa?
    Spinelli sognava un’Europa federata, quelli che noi oggi chiameremmo, azzardando, “Stati Uniti d’Europa”, ma cosa c’è oggi di quella federazione?
    Gli autori del Manifesto di Ventotene spiegavano come il primo passo fosse l’unione politica, piuttosto che quella economica e finanziaria – step successivi alla prima – per evitare uno stravolgimento del processo di unificazione che portasse a consolidare le singole posizioni nazionali sul piano politico, ritenendo sufficiente l’unione sul piano economico.

    Oggi gli Stati membri dell’UE fanno fatica ad immaginare un Continente composto non più da singole nazioni, ma da una Comunità nuova, fatta di centralità politica europea e di condivisione massima. Da stati federati, per l’appunto.
    Oggi continuiamo a rincorrere le borse d’Europa, i mercati finanziari e a stigmatizzare il lavoro del Parlamento europeo gridando contro l’austerity – che ha calpestato la dignità di diversi popoli europei – fortemente voluta dalla Germania, la stessa Germania che ha posto i fiori sulla tomba di Spinelli.

    Nel frattempo, in tutta Europa le forze anti-europeiste si fanno sentire e diventano sempre più forti, soprattutto in Francia. Ma quindi?
    Quale risposta dare? Quale azione mettere in pratica?
    Bisognerebbe forse riprenderlo quel Manifesto, così grande e così lungimirante. Bisognerebbe studiarlo e farlo leggere a chi oggi l’Unione europea la guida, la rappresenta. Ma soprattutto farla conoscere a coloro che l’Europa sono, cioè i suoi cittadini.
    Dobbiamo avanzare sul piano dell’unione politica. Dobbiamo farlo se vogliamo che l’Europa sognata da Spinelli diventi realtà.
    Facciamo un piccolo grande passo, ad esempio: alle prossime elezioni europee non presentiamoci più con i diversi simboli dei partiti nazionali. Candidiamoci presentando agli elettori i simboli dei partiti europei, per dare un simbolo di unità politica, per consentire all’elettore di sentirsi, nell’urna, uguale al tedesco, al francese, all’olandese, allo spagnolo e così via.
    Che tutti gli elettori di centrosinistra europei barrino il simbolo del PSE, così come quelli di centrodestra quello del PPE e così via.
    Poco direte voi. Forse avete ragione, ma è dalle piccole cose che la coscienza si smuove e prima di preoccuparsi, forse, della coscienza dei governanti, dovremmo preoccuparci della nostra, ovvero quella dei governati.


  • Per una politica a colori e una sinistra viva

    Per una politica a colori e una sinistra viva

    Ho letto con molta attenzione la nota quotidiana di Emanuele Macaluso, sulla sua pagina Facebook “EM.MA in corsivo” – nella quale riporta pensieri illuminanti, da cui trarre spunti per una riflessione politica al passo coi tempi, attraverso opinioni partorite da una mente arguta e appesantita dalla grande esperienza politica.

    Partendo dal Cardinale Ravasi e il suo Breviario sul Sole 24 ore, nel quale, citando Malraux, riportava le parole usate da questi nel giudicare strana la sua epoca, affermando che “la sinistra non era la sinistra, la destra non era la destra, il centro non stava nel mezzo”. Sembra una definizione attualissima. Peccato che Malraux sia morto nel 1976.

    Ravasi continua asserendo che “Il funerale delle ideologie non ha spazzato via – beneficamente – i dogmatismi, le isterie teoriche, i sistemi cristallizzati. Ha anche semplificato il pensiero, ha banalizzato la progettualità, ha sbeffeggiato gli ideali, ha spento la dialettica, ha ridotto il confronto a vacuità o a scontro. Per questo è forse necessario ritornare alla distinzione, alla dottrina, alla gamma dei colori abbandonando il grigio monocromo” riporta una lettura tanto vera quanto dolorosa e il Compagno Macaluso lancia una freccia grossa quanto una casa e ad una velocità supersonica contro l’attuale classe politica, la quale ha, di fatto, perso la visione a colori della politica, e al termine si appella alle giovani generazioni. Ed è su questo che rifletto.

    A Macaluso rispondo con “ce la metteremo tutta”, come si rispondebbe alle urla di incoraggiamento, provenienti dagli spalti, appena prima di entrare in campo durante una partita di calcio. E non serve retorica alcuna per rispondere ad una tale esortazione, dovremmo semplicemente guardarci allo specchio e riflettere su noi stessi.

    Da quando faccio politica ho sempre creduto che ci fosse un gap generazionale, positivo, tra le giovani generazioni e le “vecchie” impegnate in politica. Devo dire che non è sempre facile credere ancora a tale visione delle cose, perché gli elementi a supporto della tesi opposta sono tante e molti le rendono vigorose e difficilmente confutabili. Ma chi si perde d’animo farebbe bene a non farla, la politica. Ed è per questo che guardare a colori il mondo è un nostro obiettivo.
    Avete presente quei quaderni da colorare che tutti noi, almeno una volta, da bambini abbiamo avuto? Bene, la politica odierna è l’editore e i suoi fruitori siamo tutti noi, senza differenza alcuna. Il compito di una nuova generazione di politici è di colorare quei quaderni con colori vivi e farlo non solo per se, ma per chiunque ormai non conosce altro che la visione monocromatica delle cose.

    Scegliamo i pantoni più belli, ma facciamolo. Facciamolo partendo da un impegno generazionale: non prendiamo come esempi i peggiori o i “meno peggio”. Guardiamo alla Storia e lì cerchiamo le nostre stelle polari – al plurale non per caso, perché ognuno ha la sua e anche più di una. Abbandoniamo una visione della politica sterile, fatta di posizionamenti e di battaglie con il solo scopo di ottenere posizioni personali. Basta. È avvilente.

    È avvilente doversi confrontare con coetanei che non hanno la benché minima idea di cosa sia il dubbio, l’incertezza, il mettersi in discussione. Leoni ruggenti con il ruggito di altri, con criniere pettinate dall’arroganza dello sterile e stagnante gioco delle parti, in cui appartenere ad un partito o ad un movimento impedisce una discussione al di sopra delle convinzioni di parte (troppo banali per definirle ideali).

    Perdiamoci nella bellezza del litigio sincero e genuino, generato da visioni del mondo differenti, con la consapevolezza che, pur con diverse sue visioni, il mondo e uno e appartiene a tutti quanti noi.


  • Prendetelo ma non lasciatelo in carcere

    Prendetelo ma non lasciatelo in carcere

    Prendete quel fascista che, a Fermo, ha ucciso a pugni quel ragazzo nigeriano.
    Prendetelo e non mettetelo in carcere.
    Fatelo lavorare nei centri di accoglienza, fatelo piegare dalla fatica del lavoro e lasciatelo dormire con coloro che odia per motivi che neanche sa.
    Scoprirà che siamo tutti uguali e che l’umanità non si divide in bianchi e neri, ma in ignoranti e consapevoli. E lui ignora, come molti altri, cosa sia la dignità umana.


  • A thought to young britons. Un pensiero ai giovani britannici.

    A thought to young britons. Un pensiero ai giovani britannici.

    A thought to young britons and to my friends of UK who voted for remain in the European Union. We can’t forget our mission: a stronge Europe, an united Europe, the United States of Europe.
    The oldest generations don’t believe in this political dream, doesn’t matter. In the next future, we’ll can redeem it and again we’ll be togheter citizens of Europe.


    Un pensiero ai giovani britannici e ai miei amici del Regno Unito che hanno votato per restare nell’Unione europea. Non dobbiamo dimenticarci della nostra missione: un’Europa forte, un’Europa unita, gli Stati Uniti d’Europa.
    Le generazioni più grandi non credono in questo sogno politico, non importa. Nel prossimo futuro, potremo riscattare quel sogno ed essere insieme, di nuovo, cittadini d’Europa.


  • Amministrative 2016: chi è causa del suo mal pianga se stesso. Analisi del voto

    Amministrative 2016: chi è causa del suo mal pianga se stesso. Analisi del voto

    Ed è giunto il momento di fare “sintesi”, di raccogliere le idee e cercare di dare una lettura personale di quanto accaduto durante queste Elezioni amministrative.

    Il dato è limpido: il Partito Democratico ha ricevuto uno schiaffone dietro al collo da parte degli elettori.

    Partiamo da quello che è successo a Roma. Sapevamo per certo che il primo turno avrebbe reso chiara la spaccatura nella Capitale, a fronte di ben 13 candidati sindaci, anche se quel 35% di Virginia Raggi era un chiaro segnale di attrazione dell’elettorato verso l’unica candidata che se pur espressione di un movimento nazionale, non aveva nulla a che vedere, personalmente, con dimensioni nazionali ma che sguazzava in un ritornello che ben conosciamo: “mandiamo a casa Renzi”. Gli altri candidati, Meloni, Fassina, Di Stefano, Adinolfi hanno utilizzato la Capitale come l’ennesimo trampolino del proprio movimento. Il “povero” Marchini, che se pur rispecchiava, anche solo in apparenza, il candidato slegato da dinamiche “estraraccordo anulare”, ha pagato il prezzo dell’incoerenza per il mutamento dal “liberi dai partiti” al “con i partiti, più di prima”.
    Roberto Giachetti – ex radicale, deputato PD e vice Presidente della Camera, già capo gabinetto al Comune di Roma con Francesco Rutelli – era una via di mezzo tra la traduzione nazionale del voto e le dinamiche locali ma, nella Capitale, una e l’altra sono tra loro intrecciate, per sfortuna dei romani.
    Il PD a Roma è stato una zavorra, l’ha detto lo stesso candidato sindaco e questo è un effetto chiaro e più che meritato, mi viene da dire, a seguito dell’irresponsabilità che il PD romano e quello nazionale hanno avuto sulla vicenda riguardante l’allora sindaco Ignazio Marino, con quel colpo di coda nel far cadere un’amministrazione che, forse, a questo punto, era meglio risollevare e proteggere, piuttosto che licenziare in quel modo (ricordiamo le dimissioni in massa dei consiglieri comunali).
    Giachetti ha fatto un ottimo lavoro, riuscendo ad arrivare al ballottaggio, contro ogni pronostico. Merito suo e di tutti coloro che l’hanno affiancato in questa competizione elettorale, ma dinanzi alla protesta dei cittadini incazzati dalle vicende pregresse, non c’è super candidato che tenga. Che sia ben chiaro a tutti e soprattutto a Renzi.
    Oggi, Virginia Raggi e il M5S hanno una responsabilità immensa: dovranno provare a risollevare la Capitale dallo stato in cui riversa, e per capire se ci riuscirà sarà indispensabile conoscere la squadra di assessori che l’affiancherà in Campidoglio. Tecnici? Politici? Competenti o amministratori alla prima esperienza?

    Per passare alla seconda città nella lista, qui il dato è da leggere in una chiave differente rispetto a quello della Capitale.
    A Milano, Beppe Sala vince le elezioni al ballottaggio. Una vittoria risicata: 20mila voti di scarto (51,70% contro 48,30%). Amministrazione uscente di centrosinistra, la quale ha portato ottimi risultati a casa nel primo mandato. Ma cosa paga, allora, il centrosinistra, nell’aver ricevuto uno scarto di vittoria così sottile?
    Giuliano Pisapia aveva, durante le Amministrative 2011, travolto la politica milanese. Dato come outsider alle primarie del centrosinistra, le vinse contro il candidato Stefano Boeri del PD (poi diventato suo assessore per poco tempo) ed altri candidati. Quel momento di confronto/scontro aveva acceso gli animi dei cittadini milanesi, riuscendo a trainare una nuova politica nella Capitale morale del nostro Paese, portando quella coalizione a vincere le elezioni contro ogni previsione. Risultato? Le primarie avevano fatto il loro dovere. Perché dico questo: se penso alle Primarie, la prima cosa che mi viene in mente è “lo strumento per eccellenza per rendere possibile l’impossibile”.
    Mi spiego meglio: le Primarie funzionano quando non sono scontate e non sono un mero atto notarile. Perché questo sono diventate, oggi: uno strumento per rendere ufficiale ciò che sapevamo da tempo essere ufficioso. Un “facciamo le primarie per legittimare ciò che abbiamo già deciso”. Questo è successo a Milano e, per inciso, anche a Roma.
    Sì, perché sia a Roma che a Milano le primarie sono state questo: da una parte Giachetti, candidato a delle primarie grigie, senza un vero competitor all’altezza della sfida; dall’altra Sala, nominato commissario straordinario per l’EXPO e diventato, magicamente, il candidato migliore per la coalizione di centrosinistra a Palazzo Marino. Il nuovo sindaco di Milano partecipa alle primarie sapendo già di aver vinto e il periodo di campagna elettorale fino al giorno dei gazebo diventa una semplice attesa per l’inaugurazione della campagna ufficiale del candidato sindaco e della sua coalizione.
    L’unico che ha cercato di rappresentare una discontinua continuità (gioco di parole voluto) rispetto all’Amministrazione Pisapia è stato Pierfrancesco Majorino, una candidatura vista con interesse ma che aveva il sapore della testimonianza, sin dagli albori.
    Ma il centrosinistra milanese paga la non ricandidatura di Pisapia. L’ex sindaco avrebbe dovuto ricandidarsi. Non l’ha fatto per ragioni personali e nessuno può sindacarne la legittimità, ma che non abbia avuto i suoi effetti sul voto mi pare una cosa poco probabile.

    Un fil rouge, quello delle primarie, che ci porta dal Centro al Nord, per poi tornare al Sud, nella Città partenopea, dove il PD non è neanche arrivato al ballottaggio, lasciando il posto al sindaco uscente, Luigi De Magistris, e al candidato del centrodestra, Gianni Lettieri. Il primo ha doppiato il secondo, al ballottaggio, dimostrando come ancora una volta i sentimenti e i mal di pancia non si percepiscono dai giornali o da dichiarazioni sporadiche di passanti al mercato rionale, ma nelle urne. De Magistris ai napoletani piace e quel 66,5% lo rende evidente e inciso col fuoco.
    Ma tornando al nostro filo rosso, a Napoli il PD ha celebrato le primarie tra l’evergreen Antonio Bassolino e la soldatessa Valeria Valente, inviata da Roma per vincere le elezioni? Certo che no. Per contrastare il possibile ritorno di Bassolino? Certo che sì. Quindi primarie dal sapore di congresso di partito, dove nella tracotante narrazione di una “Napoli che guarda al futuro”, l’unico vero obiettivo era una lotta all’homo politicus del già sindaco di Napoli, senza una reale proposta per la Città e senza il minimo carisma e polso necessari per competere con un sindaco uscente con, checché ne dicano alcuni, carisma e abilità, non pervenuti alla candidata democratica. Pensate che i cittadini non se ne rendano conto? Suvvia.

    Punito il partito a Napoli, così come a Roma, risalendo la Penisola ci imbattiamo nella rossa Bologna, da oggi più sul rosé. Virginio Merola, sindaco uscente, la spunta al ballottaggio, contro la candidata Lucia Borgonzoni, della Lega Nord. Merola, 5 anni fa, vinse al primo turno con il 50,5%. Il 5 giugno scorso si è fermato al 39,48% con, a seguire, la Borgonzoni al 22,27% e il candidato 5 Stelle, Massimo Bugani, al 16,54%. Bisognerebbe capire attentamente i flussi dell’elettorato, per capire cosa è realmente successo nel capoluogo dell’Emilia-Romagna, anche se il dato dell’affluenza è allarmante: dal 71,4% del 2011 al 59,65% del 1° turno del 5 giugno (al ballottaggio il dato è sceso ulteriormente al 53,17%).
    Qui il punto è uno: se la rossa Bologna sfancula il centrosinistra e il PD è perché la spia che segnala come su molte questioni ci siamo spostati al centro è accesa e lampeggia insieme a noi. Elettorato con paraocchi? No, grazie. E meno male che è così, in modo da aiutarci a capire che c’è qualcosa che non va e a fermarci per guardarci i piedi e riflettere. Inevitabilmente ha influenzato anche l’attività amministrativa della Giunta uscente, quindi il dato è ibrido e si intreccia tra dimensione nazionale e locale, come Roma, se pur in un’ottica differente.

    Ciò che lascia perplessi è il risultato a Torino. Lì qualcosa è andato storto, eppure la città piemontese, rispetto a qualche anno fa, oggi si presenta più all’avanguardia, migliorata in diversi aspetti. Dai trasporti ai servizi ai cittadini, passando per il sistema rifiuti e il decoro urbano. Qui è inevitabile l’influenza del sentimento politico nazionale. Piero Fassino ha pagato il prezzo di essersi avvicinato troppo al Presidente del Consiglio e di rappresentare “il vecchio”, tanto da rimanerne folgorato e vedersi sfilare la seggiola di primo cittadino, da parte di Chiara Appendino, senza particolari demeriti. Si poteva fare di più? Certo, ma non vedersi riconfermato il ruolo di sindaco è un segnale forte e, accostandolo al dato dell’affluenza, comparandolo con quello di 5 anni fa, è ancora peggio: dal 66,53% (1° turno 2011) al 57,17% (1° turno 2016). Ma se vogliamo proprio farci male, possiamo dire che Fassino, alle scorse Elezioni, vinse al 1° turno con il 56,7%. Lo stravolgimento politico è ormai in fase avanzata e la direzione centrifuga dei flussi di voti dal PD e centrosinistra è palese: il M5S si rafforza, nutrendosi dell’elettorato di centrodestra ormai senza una bussola e un elettorato di centrosinistra che da un senso complessivo al suo voto, infilandoci dentro anche il dissenso verso il Governo. Inutile prendersi in giro.

    Questo è uno spaccato del Paese. È vero, le Amministrative riguardano le città, il voto serve per eleggere i sindaci e i consigli comunali, non per dare un giudizio al Governo di turno. Ma questo solo sulla carta o, quantomeno, nei piccoli centri, dove la dimensione locale è molto più forte delle dinamiche nazionali e dove il voto è più personale che politico.
    Nelle competizioni delle grandi città, di cui ho provato a dare una mia lettura, il voto politico c’è e più è grande la dimensione delle Elezioni più quel particolare si fa intenso. Un esempio tra tutti Roma, dove se il voto fosse stato sulla persona del candidato sindaco, non riuscirei a trovare elementi di comparazione tra Giachetti e Raggi, se non il semplice fatto che sono entrambi di Roma. Una persona di specchiata onestà e, soprattutto, competenza dimostrata negli anni, contro una consigliera comunale con 3 anni appena di esperienza all’opposizione e qualche click sul web. È chiaro che non si è votata la persona del candidato sindaco, ma cosa e chi quel candidato rappresentava.

    La domanda sorge spontanea: siamo sicuri che l’Italicum vada ancora bene a Renzi? Forse si è reso conto che il ballottaggio (anche a livello nazionale) porta a polarizzare l’elettorato tra elettori del PD e i “tutti contro il PD”, rappresentato dal M5S che riesce a catalizzare i voti anche del disperato centrodestra – che non riesce a trovare candidati in grado di contrastare quelli del PD, tranne sporadici casi – pronto a sostenere l’unico baluardo opposto al PD che ce la fa. Basta guardare i flussi di voti nella Capitale, dove Meloni, Salvini, Fassina e Marchini hanno votato per la Raggi, non per qualità della candidata e del programma elettorale, ma per una mera logica di contrapposizione al Governo e al Partito Democratico.

    Fatte tutte le analisi, ora arriviamo alla diagnosi: il Partito Democratico è diventato un comitato elettorale pro-Governo e senza più un’anima. C’è chi lo dice da tempo, ma mai è stato realmente ascoltato, anzi, addirittura tacciato per gufo e rosicone.

    Matteo Renzi non è in grado di essere, allo stesso tempo, Segretario del partito e Presidente del Consiglio. La coincidenza tra le due cariche, di cultura anglosassone, è un sogno politico che coltivo, ma riconosco nelle capacità di chi ricopre questi incarichi la possibilità di realizzarlo a pieno e nel migliore dei modi. Non è il caso nostro. Almeno attualmente.

    Un partito consegnato nelle mani di due vice segretari non ha senso. Intendere l’essere segretario di partito come io intendo il calcetto del sabato pomeriggio (pur non toccando un pallone dai tempi di D’Alema Presidente del Consiglio) è deteriorante per il PD e i militanti. Fare il Segretario non può essere un hobby. Il partito ha bisogno di qualcuno che se ne prenda cura a tempo pieno.

    Renzi faccia attenzione nell’addossare le responsabilità ai soli dirigenti locali. In parte è vero, l’establishment locale è gerontocratico in molte parti del nostro Paese, i circoli sono in mano ai detentori dei pacchetti di tessere e il tesseramento online ha accentuato e reso più facile il controllo delle terminazioni nervose del PD. Quindi c’è bisogno di un cambiamento radicale del modo di intendere il partito.

    Un soggetto politico schiacciato sulla figura del leader carismatico l’abbiamo vissuta già. Era dall’altra parte della staccionata, l’abbiamo sempre criticata e abbiamo visto la fine che ha fatto. Il Partito Democratico ha una particolarità che lo ha sempre reso diverso dagli altri soggetti politici: sopravvivere ai suoi leader. E così deve essere sempre.
    Detto questo, è fondamentale non legare il partito alla figura di Renzi o del suo Giglio magico. Ho letto alcune dichiarazioni di esponenti di spicco del Partito Democratico che ritiene il momento di eleggere un segretario a tempo pieno (bene), un segretario che sia un riflesso di chi detiene la premiership (male) e vede nella Boschi tale soggetto (malissimo).
    Vi spiego le parentesi: Un segretario a tempo pieno è fondamentale, soprattutto per un partito come il nostro – strutturato, con militanti veri e una complessità invidiabile; Un segretario scelto perché compatibile con il Presidente del Consiglio è  avvilente, tanto vale tenersi i due vice segretari e ci risparmiamo la farsa di eleggere una “guida” per la nostra Comunità politica; se questa persona, poi, debba essere la Boschi, non c’è elemento che non mi porti a pensare che chi asserisca ciò abbia una considerazione del ruolo del segretario come un semplice funzionario di partito o, peggio, un mero volto con cui presentarsi in pubblico. Per carità, il Ministro Boschi ha sue competenze, è una figura politica di rilievo che ha lavorato per dare alla luce una riforma costituzionale incisiva, sotto molti aspetti, ma il segretario di un partito deve avere una cultura politica altissima, più alta, addirittura, di quella di chi ricopre il ruolo di Premier. Lungimiranza, visione d’insieme, metodo di condivisione e, al tempo stesso, di rispetto della storia politica della Comunità che rappresenta, sono tutti elementi imprescindibili che il Ministro per le Riforme costituzionali non detiene a pieno.

    La scelta del segretario sarà un passaggio fondamentale per la rigenerazione del PD, ma se vogliamo che questa abbia gli effetti sperati è necessario un congresso aperto all’interno, ma chiuso all’esterno. Basta primarie aperte per la scelta del segretario nazionale. Modifichiamo lo Statuto e leviamo di mezzo quell’articolo che ritiene il segretario il candidato naturale del PD alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sostituiamola con l’obbligo di procedere, lì sì, a primarie aperte e regolamentate, per la scelta del candidato premier, alla quale potranno partecipare tutti coloro che si riconoscano nei principi fondanti della Carta dei Valori e nel progetto del centrosinistra.
    Basta primarie aperte per questioni che riguardano il partito: un metodo che ha svilito il significato della tessera e del sentirsi militante. Poniamo fine alla possibilità di far scegliere il leader politico del partito a chi dello stesso si dimentica per 364 giorni all’anno, e si interessa a questo solo durante tali consultazioni.
    Diamo, inoltre, finalmente, ai militanti la possibilità di esprimersi sui temi rilevanti sulle quali il partito deve interrogare la sua base. Lo possiamo fare attraverso i referendum interni – online o nei circoli – dove e come riteniamo più opportuno.

    È forse giunto il momento di affrontare tali problemi una volta per tutte, anche perché non possiamo permetterci il lusso di voltare lo sguardo dall’altra parte, in vista, oltretutto, dell’appuntamento del Referendum costituzionale di ottobre prossimo.

    Riposta la lente d’ingrandimento, è giunto il momento di rimboccarsi le maniche.
    Scusate se ho scritto molto. Avrei voluto dirvi ancora di più.


  • Quando la Puglia fa la Puglia: PIN – Pugliesi innovativi

    Quando la Puglia fa la Puglia: PIN – Pugliesi innovativi

    È stato presentato il nuovo progetto di sostegno all’imprenditoria giovanile che mira all’innovazione nell’ambito culturale, sociale e tecnologico. Simile al suo antenato, Bollenti Spiriti, ma con novità importanti, che rendono PIN 10 passi avanti al passato. Un grande passo in avanti da parte della Regione Puglia in tema di Politiche giovanili.

    L’avviso pubblico è a sportello con una dotazione finanziaria pari a 10 milioni di euro, di cui 8 dedicati al finanziamento a fondo perduto di progetti e 2 milioni ai servizi di affiancamento e rafforzamento delle competenze dei partecipanti. Un programma rivolto a gruppi informali di almeno 2 giovani pugliesi (residenti in Puglia) di età compresa tra i 18 e i 35 anni.

    Un finanziamento con un range tra 10mila euro e i 30mila euro di finanziamento a fondo perduto, per la copertura delle spese di gestione e degli investimenti per il primo anno di attività.

    Vi consiglio vivamente di informarvi sul progetto e di leggere la scheda informativa che trovate sul sito ufficiale dell’iniziativa » pingiovani.regione.puglia.it