• 30 anni. E come ci sono arrivato

    30 anni. E come ci sono arrivato

    Scrivo queste righe in occasione dei miei 30 anni. Penso sia un modo per esorcizzarne l’arrivo.

    Chi mi conosce sa bene che non amo molto festeggiare, soprattutto quando la ragione della festa è qualcosa a cui ho contribuito poco. In fin dei conti, compiere gli anni è ciò che fai mentre provi a fare altro. In altre parole, il raggiungimento degli anni è solo parte del contesto e il contesto è fatto per scorrere sullo sfondo mentre gli attori vanno in scena.

    Non ho idea di quanti anni ancora scorreranno sullo sfondo ma, raggiunto il trentesimo atto, mi chiedo verso quale direzione stia proseguendo la regia e la sceneggiatura della mia opera teatrale.

    Sono successe molte cose nei miei “anni 20”, tra queste: mi sono trasferito in una nuova città, allontanandomi da ciò che fino a quel momento avevo costruito e allungando le distanze che mi separavano dai miei affetti; ho vissuto amori e infatuazioni fallimentari; ho provato cosa significa l’isolamento forzato, in una stanza di 15 metri quadri, senza alcun contatto fisico o una parola che non fosse scambiata senza l’intercessione del telefono; ho fatto e continuo a fare un mestiere che, ai tempi dell’università, giuravo di non voler fare mai.

    Eppure, mi accingo a svolgere questo esercizio esorcizzante (mi scuserete per lo scioglilingua), non per parlare di quello che ho fatto, ma di quello che ho capito. Perché se c’è una cosa che ritengo importante, per vivere bene e non sprecare neanche un singolo giorno, è quello di abbandonare la supponenza di chi crede di sapere sempre come vanno le cose e che non ci sia nulla da imparare da ciò che ti succede attorno. Meglio sentirsi sempre su un banco di scuola e non dare mai nulla per scontato, che essere davanti alla lavagna e fare la figura del somaro.
    Le esperienze che viviamo sono importanti anche e soprattutto per consentirci di arrivare più preparati alle prossime. Che poi, a pensarci, è una rielaborazione della teoria inflazionata del perché sia importante studiare la Storia.

    Mi presento, dunque, al checkpoint dei 30 anni con qualche sasso in più nelle tasche.

    Amare è difficile ma inevitabile. Ho scontato l’insopportabile sensazione che amare fosse qualcosa di insostenibile e di difficile realizzazione. Qualcosa che ormai non avrebbe più toccato le corde della mia esistenza. Lasciare, essere lasciati, lasciarsi vicendevolmente. A seconda di quale fosse la mano che impugnava il fendente, la luce che ha illuminato le diverse scenografie ha concesso un punto di vista unico in ognuno di quei momenti. Come un gioco di logica, unendo quei puntini vien tracciato un disegno in cui oggi mi ritrovo: amore e raziocinio sono uno l’antitesi dell’altro. Non siamo noi che decidiamo di amare, né tantomeno possiamo fuggire dal farlo. Possiamo essere superficiali nei nostri rapporti o, meglio, possiamo resistere ai rapporti superficiali per un certo tempo ma, presto o tardi, tutto crollerebbe per mostrare ciò che realmente è. Nel bene o nel male. Non possiamo simulare di amare una persona né, tantomeno, possiamo imporci dei limiti nel farlo.

    Non bisogna dimenticare, ovviamente, che per quanto amare sia inevitabile e allo stesso tempo ingovernabile, anche questo sentimento può finire e la sua esistenza (e persistenza) non può essere data per scontata. Come direbbero quelli bravi: l’amore va coltivato, ogni giorno.

    Quando un rapporto con una persona finisce, possiamo sentirci sollevati, o sprofondare nell’assoluta tristezza, ma il fallimento rimane e del fallimento non si butta via nulla. Neanche un solo grammo del fallimento va sprecato. Avendo fallito tante volte, ho capito come non sia possibile far finta che l’amore verso una persona esista, così come non potrei far finta del contrario. È il concetto stesso di protezione nei confronti dei propri sentimenti ad essere ossimorico: cercare protezione da tutto ciò che rientra nell’area semantica dei sentimenti è come cercare riparo da ciò che può ripararci da tutto il resto. È l’assenza dei sentimenti ad esporci a rischi e pericoli, tra cui il più pericoloso: vivere in modo asettico, senza alti e bassi, privo di qualsiasi sensazione che ci faccia sentire più di un insieme di azioni meccaniche come dormire, mangiare, respirare, andare di corpo e tornare a dormire.

    Che dispendio inutile di energie sarebbe quello di alzare barriere per ripararci da un improvviso coup de foudre? Parametri vitali al massimo, respiro profondo e muscoli tesi. Tutto è pronto per reagire ad un possibile incontro ravvicinato del terzo tipo. Non l’avrai vinta, mio acerrimo nemico! Eppure, finisci per capitolare appena i tuoi occhi cadono su una persona che, assorta nei suoi pensieri, è seduta in fondo ad una fila di sedie in un’aula di tribunale, mentre è lì per tutt’altro, proprio come te. Per dire.

    Non si vive senza abbracci. La Pandemia da Covid-19 ha spinto tutti noi ad interrompere le nostre relazioni umane nella loro dimensione fisica. Ho vissuto intere settimane da solo, a Roma, avendo a disposizione solo una stanza, un minuscolo bagno e una piccola cucina. Insieme a me non c’era nessuno e la cassiera del supermercato in cui andavo a fare la spesa, una volta ogni 10 giorni, era schermata da plexiglass, occhiali e mascherina.
    Per la prima volta, mi sono sentito un soggetto pericoloso e schivato, a cui veniva negato il contatto fisico. Ne sono uscito a pezzi e quei pezzi li ho rimessi insieme con il tempo, anche grazie alla psicoterapia.

    Se c’è una cosa che ho compreso da quell’esperienza, e che oggi riempie quel vuoto che aveva creato, è la consapevolezza di non poter vivere senza nessuno accanto, fosse anche con la sola idea di poter abbracciare qualcuno alla prima occasione utile. Ho capito di avere estremamente bisogno del contatto fisico.
    Per la rubrica “ce lo dice la scienza”: gli abbracci alleviano i sintomi dello stress, aiutano a ridurre la pressione arteriosa e a equilibrare i nostri modi di fare. Non dimentichiamoci, tra le altre cose, che i bambini appena nati aggrappano la propria esistenza al contatto fisico e privargliene implicherebbe condannarli ad epiloghi anche catastrofici (link).

    Non avevo mai fatto i conti con questa parte di me, eppure ho capito che senza la possibilità di poter toccare anche solo un braccio di un altro essere umano io non so stare. È una mia debolezza o una mia forza? Non lo so e non me lo pongo certamente come un problema, eppure così è e se c’è una cosa che ho ulteriormente capito è che non bisogna dar per ovvio nulla, neanche l’esistenza di un abbraccio.
    Di questo sono grato al lockdown, perché tra le mille miserie che mi ha lasciato intorno, è grazie ad esso se oggi, quando abbraccio qualcuno lo faccio dandoci l’attenzione che merita.
    Ricordo benissimo la prima persona che abbracciai dopo quel duro isolamento: non potei chiedere di meglio per ricominciare.

    Nessuno mi può giudicare, nemmeno tu. Aggrappare le proprie scelte e, in certi casi, la propria esistenza sulla Terra ai giudizi degli altri è un rischio che si corre e in cui spesso ci ritroviamo inconsapevolmente. Io non sono da meno. Eppure, nel corso del tempo ho cercato il modo di fuggire da questa ragnatela, perché essere imbrigliato e non riuscire a muoversi come si vuole non è una sensazione appagante, neanche se ci si abitua.

    Potrei parlare di “coraggio delle proprie scelte”, ma provo a farla più semplice e meno retorica: vivere una vita che non è propriamente nostra al 100% non ci rende più affabili agli occhi del mondo e delle persone che ci circondano, neanche di coloro verso i cui giudizi mostriamo particolare attenzione. Le persone cambiano e con loro anche i giudizi che esprimono.
    Oggi, veniamo giudicati perché abbiamo fatto una cosa mentre, domani, potremo essere giudicati dallo stesso soggetto per non averla fatta. Dunque, perché sforzarsi di piacere agli altri, a tutti i costi, cercando un disperato ritorno di accettazione?
    Pochi giorni fa è venuta a mancare Michela Murgia. Tra le tante ricchezze che ci ha lasciato in eredità, mi ha sempre colpito quella sua capacità di essere stata sé stessa con le parole e con le azioni. In uno dei suoi ultimi interventi pubblici, durante l’ultima edizione del Salone del Libro di Torino, aveva affermato: “Io sto vivendo il tempo della mia vita adesso. Dico tutto, faccio tutto, tanto che mi fanno? Mi licenziano? […] Ma voi non aspettate di avere un cancro per fare così” (video).

     “Tanto cosa mi fanno?”. Il senso è tutto in questa domanda. Se ci ponessimo l’obiettivo di vivere la nostra vita come desideriamo davvero, sono certo che la risposta a quella domanda potrebbe essere, semplicemente, una: niente. Non possono farmi niente. E se qualcuno si allontanasse da me per aver fatto una scelta che sentivo davvero mia, vuol dire che aveva proiettato su di me aspettative completamente sconnesse con la mia persona, e generalmente frutto di superficialità nel conoscere chi si ha davanti o, peggio, di arroganza nel credere di poter condizionare le azioni dell’altro proprio attraverso l’idea che si ha di lui.
    Ma noi siamo più di quello che gli altri pensano di noi. Ecco perché se voglio comprarmi qualcosa, lo faccio perché a me va. Se voglio parlare di un argomento delicato, lo faccio perché a me va. Se voglio raccontare qualcosa che mi riguarda, lo faccio perché a me va. Se voglio farmi un orecchino, lo faccio perché a me va.
    Questo approccio che io applico su me stesso vorrei poterlo traslare, in chiave di reciprocità, verso i rapporti che io ho con gli altri. Certo è che non si tratta di un lavoro semplice, soprattutto perché bisogna essere almeno in due ad accettare questa visione delle cose. Non c’è dubbio, però, che sia meglio tentare e dire di aver fallito, piuttosto che teorizzare cose che restano solo dei desiderata o dei principi inapplicati.

    I “mai” sono scritti sulla sabbia. Faccio un mestiere – quello dell’avvocato – da quasi 6 anni. Un destino professionale che, durante l’università, giuravo a me stesso (e agli altri) di voler evitare. “Forse, come ultima spiaggia”, dicevo. Eppure, da ultima spiaggia è diventata la prima. Non mi ha costretto nessuno a farlo né, tantomeno, qualcuno mi costringe ora. L’insegnamento che traggo da come sono andate le cose, in questi anni, è che non bisogna partire con il pregiudizio che qualcosa non ci piaccia o con anatemi scagliati contro quelle che, tutto sommato, restano delle ipotesi plausibili. Se non abbiamo provato cosa significhi percepirsi in una certa dimensione, anche per un solo giorno, come possiamo darvi un giudizio così netto e a priori? Potessi tornare indietro nel tempo, direi al me universitario che i “mai” sono scritti sulla sabbia e che alla prima mareggiata tutto si cancella. E avrei aggiunto che quel mestiere lì poi, alla fine, avrà il suo fascino e che non sarà proprio come se lo immagina lui.

    Cosa mi riserverà il futuro è impossibile che io lo possa sapere (e anche basta a doverselo chiedere, che poi l’unica cosa che si ottiene è l’ansia che sale), ma mi riservo di dire che oltre al “mai”, non esiste neanche il “per sempre” e che l’idea di assumere tante forme, nella propria vita, ti permette di approcciarti alle cose attuali con un grado di serenità maggiore e con la forza di chi sa di star facendo il suo ruolo nella rappresentazione dei propri giorni e di quelli degli altri. Per quanto siamo e dobbiamo essere i protagonisti della nostra opera teatrale di cui sopra, ricordiamoci che siamo anche parti (secondarie, con buona pace degli egocentrici) di quelle degli altri.

    A chi, alla fine di questo post, si sia chiesto: sì, ma a questi 30 anni ci sei arrivato felice o lacerato nell’animo? Rispondo che sono uno scontento felice. Contento, deriva dal latino, contentus (participio passato di continere) e significa appagato, soddisfatto di ciò che si fa o si riceve. Ed io non sono soddisfatto di ciò che ho fatto e ho ricevuto fino ad ora, perché so di poter e dover ancora fare molto. Però sono felice (dal latino felix, non turbato da dolori), perché sono sereno e so di spingere l’accelleratore quando posso e di star crescendo, obtorto collo.

    Grazie. A chi è arrivato fin qui (ed è sopravvissuto a questo post). E a chi c’è stato fino ad ora e a chi ci sarà.

    Cheers!


  • Era meglio scalare l’Everest

    Era meglio scalare l’Everest

    Sono alla ricerca di una casa a Roma. Ma questo, se avete letto qualche mia storia precedente, lo sapevate già.

    Eppure, la sensazione che sto provando in questo periodo, nel vedere case, è un mix tra sconforto e disgusto.

    Non c’è il senso della misura e della decenza. Si fittano seminterrati (per dirla in termini più aulici: i suttuene) a prezzi folli, per non parlare di case fatiscenti che meriterebbero una manutanzione straordinaria senza precedenti solo per renderle dignitose per un essere umano.

    Ma non è tutto.

    Ho risposto a diversi annunci e parlato con diverse agenzie immobiliari.
    Dopo aver decantato le qualità dell’appartamento di turno (poi rivelatesi solo un mucchio di fesserie), mi viene posta la domanda: lei che lavoro fa?

    Ed io rispondo: sono un avvocato.

    Dall’altra parte della cornetta, la reazione è 8 volte su 10 sempre la stessa: ah!

    Ah!” cosa?

    “La fermo subito, il proprietario della casa vuole solo persone con contratto a tempo indeterminato, possibilmente pubblica amministrazione o forze armate”.

    Ah! (Questa volta a dirlo sono io).

    Ecco, dunque, la spada di Damocle che si abbatte sulla testa di una Partita IVA: non solo siamo già bistrattati di nostro, ex lege, ma siamo considerati poco affidabili a tal punto da non meritare neanche di vedere una casa. Neanche di passare sotto ai raggi X del locatore di turno.

    “Guardi che io lavoro in uno Studio legale associato da ormai 6 anni. Ha bisogno di una mia dichiarazione dei redditi?”.

    La risposta resta: “No, guardi. La fermo. Mi dispiace”.

    La verità è che dispiace più a me. Non per la casa che non potrò vedere, quanto per prendere sempre più consapevolezza che c’è un contratto sociale tra generazioni che si è ormai dissolto nel nulla.

    Non soltanto prezzi folli per dei buchi di c**o fatiscenti e con infissi del 1930, ma se non hai un contratto a tempo indeterminato, manco ti guardano in faccia.

    La Politica passa le ore di buco, tra una polemica e l’altra, ad interrogarsi sul perché la nostra generazione faccia fatica a farsi spazio o, peggio, sul perché ci siano ancora Over30 che vivono con mamma e papà.

    Non c’è solo un problema di caso affitti, ma anche di discriminazione professionale (e sociale).

    Mi reputo una persona fortunatissima: ho iniziato a lavorare solo dopo 3 settimane dalla laurea; sono economicamente autonomo da quando ho 24 anni. Non perché abbia vinto la lotteria, ma perché ho un lavoro e guadagno ciò che mi permette di non dover chiedere nulla a nessuno.

    Eppure…

    Eppure, anche per poter entrare nella casa dove sono ora ho dovuto far firmare a mio padre una fideiussione.
    “Sa, avvocato, è per stare sicuri. Null’altro. Lei capirà, dato che è del mestiere”.

    No. Non capisco.
    Non lo capisco, soprattutto dopo che mi hai chiesto pure che gruppo sanguigno sono e se sono un donatore di organi.
    Cos’altro devo dimostrare?

    E se uno i genitori non li ha? Cosa si fa? Si richiede una fideiussione bancaria? È un appartamento di 80 metri quadri o un centro commerciale, quello che sto chiedendo in affitto?

    Le generazioni precedenti alla mia si son mangiate tutto il mangiabile e ora chiedono a noi garanzie.

    E se vi state chiedendo perché io abbia deciso di scrivere tutto questo, vi rispondo: non è per sfodarmi. Non è perché non ho altro da fare.

    Per è per denunciare. Denuncio tutto questo scempio umano che si consuma addosso alla mia generazione.

    Racconto ciò che succede a me, perché sono certo che non sono il solo ad aver vissuto o a vivere questa situazione.

    Ne faccio una battaglia di principio.

    Ho iniziato a fare politica per fare battaglie di principio.
    Perché qualcuno deve pur farle.
    E perché bisogna smetterla di rassegnarsi al “tanto è così”.

    Ciao.


  • Il Don Giovanni al tempo dell’Intelligenza Artificiale

    Il Don Giovanni al tempo dell’Intelligenza Artificiale

    Saremo sedotti e abbandonati dalle macchine?

    Sono le 7.30 del mattino, fuori c’è bel tempo ma, nel pomeriggio, al 79% pioverà. Lo dice l’app del meteo e – si sa – ormai gli algoritmi ne sanno più di noi su tutto, previsioni meteo incluse. Mentre penso ai proverbi che mia nonna materna era solita raccontarmi quando le intemperie cavalcavano verso di noi dall’orizzonte, metto in atto la mia solita routine della colazione, fatta di podcast sulla rassegna stampa del giorno e un veloce “zapping” tra i feed dei miei profili social.

    Gatti. Gatti. Panorami mozzafiato accompagnati da musiche epiche. La signora Nunzia che, da Bari Vecchia, ci racconta il menu delle domeniche estive. Due pubblicità: abiti sartoriali su misura (perché non bastano le telefonate con cui ti offrono una pochette in omaggio) e un’applicazione dalle doti stupefacenti che sono portato ad approfondire.

    Dice di essere la trasposizione dell’Intelligenza Artificiale generativa di ChatGPT su un’app per smartphone. Il mio pollice era pronto ad andare oltre, quando la pubblicità mostra un caso applicativo: delegare al chat-bot la scrittura di un messaggio “perfetto (cito il copy, ndr) con cui scaricare il proprio partner”. Ah!

    Hey Siri! Ricordami, quando torno a casa, che devo fare la lavatrice dei delicati.
    Okay! Te lo ricorderò
    .

    Scappo in ufficio e mi chiedo come sia possibile ritenere accattivante (a tal punto da basarci del marketing) l’idea di affidare ad un bot le parole con cui interrompere una relazione con un altro essere umano.

    Hey Siri! Che tempo farà oggi?
    Oggi, il cielo sarà sereno. La temperatura sarà di circa 25 gradi. Durante la notte sarà di circa 14
    .

    Chi la spunterà tra l’app del meteo e Siri?

    In effetti, ChatGPT può scrivere (quasi) tutto e ho voluto, quindi, verificare le sue doti da “ghost writer spacca cuori”. Ecco cosa mi ha proposto, quando ho chiesto di scrivere per me un messaggio con il quale interrompere una relazione sentimentale:

    “Ciao [Nome del tuo partner],
    Mi dispiace che debba dirti questo, ma ho bisogno di parlarti di qualcosa di importante. Ho trascorso molto tempo a riflettere su di noi e sul nostro rapporto, e ho capito che non sono più felice come una volta. Penso che sia meglio per entrambi prendere strade separate.
    Mi rendo conto che questa notizia può essere difficile da accettare e mi dispiace se ti sto causando dolore. Tuttavia, credo che sia importante essere onesti l’uno con l’altro e fare ciò che è meglio per la nostra felicità individuale.
    Voglio che tu sappia che ci tengo a te e che rispetto profondamente il tempo che abbiamo passato insieme. Abbiamo condiviso momenti preziosi e mi porterò sempre nel cuore i ricordi che abbiamo creato. Ma credo che sia giusto per entrambi cercare la felicità altrove.
    Ti prego di capire che questa decisione non è stata presa alla leggera e spero che tu possa trovare la serenità e la felicità che meriti. Sarà difficile per entrambi, ma sono convinto che col tempo potremo superare questa fase e trovare la nostra strada verso il futuro.
    Ti auguro il meglio nella tua vita e spero che tu possa trovare l’amore e la felicità che meriti. Sarai sempre una persona speciale per me e ti porterò sempre nel mio cuore.
    Ti ringrazio per tutto ciò che hai dato alla nostra relazione e per tutto il supporto che mi hai offerto. Ti prego di prenderti il tempo necessario per elaborare questa notizia e, se vorrai parlare, sarò qui per te.
    Addio, [Nome del tuo partner].
    Con affetto, [Tuo nome]”
    .

    Ora, al netto che lasciarsi tramite messaggio è una cosa abbastanza triste senza la necessità di scomodare un bot, il risultato non è male e può essere anche al di sopra delle comuni aspettative. In definitiva, per qualcuno potrebbe davvero essere una manna dal cielo avvalersi del supporto di un’IA per fare il lavoro più difficile: trovare parole migliori del classico “non sei tu! Sono io il problema!”.

    E se domani i bot non si limitassero solo a proporci dei testi ma a sostituirsi a noi in tutto e per tutto? Questa domanda è, chiaramente, retorica. Perché c’è già chi ha pensato a questo e da diverso tempo: ad esempio, è di ormai 5 anni fa la conferenza in cui Sundar Pichai presentava Google Duplex, una funzione AI-based che permetterebbe all’assistente vocale di Google di prenotare, ad esempio, un taglio di capelli o un tavolo per 4, dialogando al telefono con una persona in carne ed ossa dall’altra parte della cornetta (vedi prossimo video). La cosa interessante è che quando questa conferenza ha avuto luogo, il GDPR attendeva ancora di essere applicato.

    Nel frattempo, fuori piove. L’algoritmo dell’app del servizio meteo è stato più accurato di quello di Siri.

    E se un’assistente vocale con un’Intelligenza Artificiale ci chiamasse per lasciarci con la contumacia dell’ormai ex amante?

    Pronto?
    Ciao, sono l’assistente virtuale di ALFA. Ti chiamo per dirti che ALFA ha deciso di interrompere la relazione con te. Ma prima che ti spieghi le ragioni, ti invito a consultare l’informativa privacy, ricevuta via SMS, per ottenere maggiori informazioni su come tratto i tuoi dati personali.”

    Mentre fuori dalla finestra la pioggia si è trasformata in grandine (con buona pace di Siri), penso a quanto ci si stia impegnando nel governare lo sviluppo e l’impiego dell’Intelligenza Artificiale e mi chiedo se arriveremo davvero ad un utilizzo così pervasivo di questa tecnologia  da farci sostituire non soltanto in certi lavori e nelle attività che richiedono una particolare complessità di analisi, ma anche in quelle che sono le primordiali esigenze umane: le relazioni con altri esseri viventi della nostra specie.

    Il gioco è diabolico e la mente può raggiungere infiniti casi applicativi dell’Intelligenza Artificiale in tale contesto. Pensiamo al desiderio di voler intrattenere interlocuzioni con più persone contemporaneamente, mentre noi ci dedichiamo ad altro, fosse anche leggere un libro o dormire beatamente. Un algoritmo, a cui sono stati dati in pasto decine se non centinaia di proprie chat, scrive e risponde ad altre persone con il nostro stile di scrittura (e magari con gli stessi errori grammaticali). Lo stesso algoritmo che può generare, alla fine del proprio lavoro di ghost writing un report per sapere con quale persona è più probabile che si riesca ad organizzare un aperitivo o una cena.

    Cosa direbbe Kierkegaard se il Don Giovanni facesse uso di un’Intelligenza Artificiale per sedurre le proprie donne? Che fine farebbe il «tempo» necessario – per il “seduttore psichico” – per predisporre i suoi piani e, anzi, reso parte dei suoi strumenti di seduzione, se questo «tempo» venisse (quasi) azzerato dall’intervento di una macchina capace di sostituirsi al seduttore? E cosa ne sarebbe del godimento provato dal Don Giovanni nel sedurre e condurre le sue donne ad uno stato di totale soggiogamento, se questo risultato venisse raggiunto da un bot dotato di Intelligenza Artificiale e sostituitosi al Don Giovanni grazie al machine learning?

    Tornato a casa, Siri mi ricorda che devo fare il lavaggio dei delicati e mentre lascio che un’assistente vocale mi ricordi cosa devo fare, mi auguro e spero che nel processo che ci porterà ad affrontare l’Intelligenza Artificiale nella nostra vita quotidiana, da qui ai prossimi anni, ci siano non solo delle regole dettate da norme o da patti intergovernativi, ma anche la consapevolezza che i piani siano e debbano restare ben distinti: da una parte l’essere umano, pieno di difetti e sentimenti e per questo unico; dall’altra l’Intelligenza Artificiale, che dagli esseri umani può imparare tutto, fuorché cosa voglia dire essere un autentico essere umano, con i suoi difetti e sentimenti e per questo, mai unica.

    Hey Siri, buonanotte!
    Buonanotte, Davide. A Domani! Vuoi conoscere le previsioni meteo previste per domani, a Roma?
    No, grazie. Come se avessi accettato!
    .


    Questo articolo è stato pubblicato su Gli Stati Generali.


  • Raccontare la salute mentale

    Raccontare la salute mentale

    Partendo dalle esperienze di tutti noi, la salute mentale può trovare la sua giusta narrazione. Bistrattata dai più, ritenuta come il “male del secolo” da altri o, peggio, una “devianza” da combattere con lo sport e le attività culturali.

    L’idea che abbiamo delle cose può condizionare il nostro approccio con loro, e questo vale anche rispetto ai problemi del nostro tempo.

    Vorrei provare a raccontare la salute mentale partendo dalle esperienze di chi la vive quotidianamente, nella sofferenza o nel più generale disorientamento che un disturbo psichico può generare. Sia chiaro, dobbiamo intendere come disturbo psichico qualsiasi cosa che contrasti con il nostro benessere psicologico: dall’ansia agli attacchi di panico, dalla depressione all’hikikomori, dalle fobie ai disturbi alimentari.

    Ringrazio, sin d’ora, chi vorrà partecipare a questa indagine. Non potrò sapere chi sarete (è anonimo e tale restarà). Ma se parteciperete in molti, mi sarà possibile realizzare un progetto editoriale che spero possa essere di aiuto a moltissime persone. Alcune vostre storie, infatti, potrebbero diventarne protegoniste, cercando di analizzare alcuni aspetti che potrebbero essere utili a chi, allo stesso modo, vive un’esperienza simile. Perché anche il convincere una singola persona a rivolgersi ad un professionista della salute mentale, per me significherebbe molto.

    [Sondaggio terminato]


  • Coraggio PD – Intervento di Davide Montanaro (29/10/2022)

    Coraggio PD – Intervento di Davide Montanaro (29/10/2022)

    Sabato scorso, a Roma, abbiamo ridato dignità alla Politica. Eravamo più di 600 persone, tutti con le nostre esperienze e le nostre passioni sulle spalle. Ho avuto il grande onore di contribuire alla sua riuscita, prima con l’organizzazione e poi con il mio intervento sul tema di cui mi occupo da più tempo: la comunicazione politica.

    Il Partito Democratico ha sempre avuto una relazione difficile con la comunicazione, ma cospargersi il capo di cenere non ci porterà da nessuna parte. Bisogna ricostruire tutto, anche il modo con cui decidiamo di pensare e comunicare. Serve approfondire i problemi, studiarli a fondo.

    Bisogna ponderare ogni parola perché le parole sono lo strumento fondamentale per raccontare l’idea di Paese che immaginiamo e per la cui realizzazione ci candidiamo ad ogni livello.

    Nelle mie parole troverete un po’ di emozione. Quell’emozione che mi ha portato a commettere – beffardamente – due errori di comunicazione: l’esempio non era “dinamico” ma “virtuoso” (vai a sapere la mia mente come li ha associati tra loro) e l’uso del termine “patologie” al posto di “disturbi” in relazione alla salute mentale. È giusto chiamarli disturbi e non altro, perché le patologie sono altra cosa e le parole servono anche a riconoscere la vera natura delle cose.

    Grazie a tutti. Mi sono sentito a casa mia. #CoraggioPD


  • Il tempo è vita

    Il tempo è vita

    Io l’ho fatto il cameriere. Una stagione estiva di molti anni fa. Andavo ancora al liceo.

    Iniziavo il turno alle 18 in punto e terminavo alle 6 del mattino. Qualche volta anche più tardi.
    12 ore della mia giornata le passavo a lucidare bicchieri, portare piatti a tavola e poi, sul finire, lavare tutto il locale insieme ad altri ragazzi, mentre fuori il sole ritornava.Il tutto, per qualche banconota e la magra soddisfazione di aver guadagnato qualcosa per potermi pagare, senza chiedere aiuto a nessuno, una cena fuori o potermi togliere qualche sfizio.

    Ma al netto di quanto guadagnassi, ciò che rimane evidente è il tempo che quel mestiere sottrasse al mio unico periodo di libertà, lontano dagli impegni scolastici e dalla frenesia che riprendeva ogni inizio settembre. Eppure l’ho fatto per mia scelta, perché è così che dovevano andare le cose quella volta.

    Provo grande stima verso chi fa questo lavoro ma io, oggi, non l’avrei più fatto.

    E non perché ci si attacca al denaro o si è “choosy”, come qualcuno ci apostrofò qualche tempo fa, ma perché è vero quel che dice, suo malgrado, lo chef La Mantia: il covid ha cambiato le priorità delle giovani generazioni.

    Ed è giusto così.

    Il Covid ha messo in evidenza come il tempo passato a fare le cose che ci rendono felici e ci gratificano sia preziosissimo. Per tale ragione, il lavoro non deve esserci a prescindere ma deve essere di qualità e deve avere rispetto della vita del lavoratore.

    Un lavoro alienante, che assorbe tutte le energie e il tempo del lavoratore, non è vero lavoro. È un supplizio e 1400€ di paga non valgono quanto il desiderio di essere davvero felici.

    La concezione del lavoro e del tempo è cambiato, perché è cambiato il mondo. E chi non se ne rende conto è destinato a scontrarsi con la realtà e, presto o tardi, le sue convinzioni andranno in frantumi. Come una macchina durante un crash test.

    A tutti i tycoon, gli imprenditori e gli chef che riempiono pagine di siti e giornali con le loro dichiarazioni contrariate, una chiave di lettura e un consiglio: le condizioni esterne non sono modellabili a piacimento di chi le subisce, ma sono frutto di un cambiamento collettivo, spinto da fenomeni sociali anche di grande portata. La pandemia è tra questi.
    O il modo di fare impresa cambia e si adatta alle nuove esigenze, oppure sarà presto soppiantato da un nuovo paradigma sociale che terrà fuori tutti coloro che sono stati ciechi e cinici davanti all’evidenza.


  • Quello che gli altri non vedono (o fanno finta di non vedere)

    Quello che gli altri non vedono (o fanno finta di non vedere)

    Quello che gli altri non vedono (o fanno finta di non vedere)

    Simone Biles, campionessa olimpica statunitense, la più forte ginnasta (in attività) al mondo, ha deciso di non partecipare ad alcune delle attese gare olimpiche in programma a Tokyo 2020.

    Ha ritenuto giusto ritirarsi, perché aveva bisogno di fare quadrato su sé stessa, potersi prendere cura della propria salute mentale. Un gesto che ha lasciato di sasso moltissimi. “Salute mentale?” sarà stata la domanda che ha riecheggiato nelle menti dei più. “Ma come, salute mentale? In che senso?”. Ecco, “in che senso”?

    Spesso gli atleti sono presi come esempio di tenacia, equilibrio e impegno nel raggiungere i propri obiettivi fisici e, dunque, sportivi. Eppure, nessuno, almeno fino ad ora, si è posto il problema di cosa ci sia dietro il fisico scolpito e quella tenacia che contraddistingue i vincenti. Qualcosa che nessuno può vedere, eccetto l’atleta stesso: l’orgoglio ferito, l’ansia, lo stress, il desiderio di ritrovarsi in un altro posto, di voler tornare indietro per fare scelte diverse. Qualsiasi cosa che vi venga in mente e che meriti tutte le attenzioni del mondo, perché la salute mentale è fondamentale quanto e forse più di quella fisica.
    Perché con una gamba o un braccio fuori uso, con impegno e voglia di riscatto, puoi riuscire a vivere serenamente e senza alcun ostacolo alla tua realizzazione. Ciò non può dirsi quando c’è qualcosa che non vada nella nostra testa: i limiti mentali sono difficili da superare con la sola volontà. Serve impegno e delicatezza, voglia di aprirsi agli altri e la fortuna di avere accanto persone in grado di ascoltarci e aiutarci.

    Più di quanto possa ritenersi per quella fisica, la nostra salute mentale ha un estremo bisogno dell’altro. Non è una battaglia che possiamo vincere da soli, in un epico 1 contro 1. Abbiamo bisogno di qualcuno che ci prenda per mano e ci faccia sentire amati, accettati e compresi. Ecco perché la scelta di Biles è una scelta coraggiosa: perché, nella nostra società moderna, il tema della salute mentale è relegato agli ultimi posti, privato di qualsiasi rilevanza dinanzi agli sviluppi quotidiani della nostra vita. Eppure, è la cosa più rilevante tra tutte.

    La stigmatizzazione è dietro l’angolo, la tendenza a chiudere nel guscio duro del tabù la salute mentale è elevatissima. Sono moltissime le persone incapaci di comprendere davvero quale sia il problema, eppure da qualche parte dobbiamo cominciare.

    Titolo apparso su un quotidiano nazionale italiano

    Qualche giornale italiano ha ritenuto corretto apostrofare il tutto con “Ho a che fare con i demoni”. Seppur ritengo questa trascrizione come un mal riuscito tentativo di tradurre in italiano le dichiarazioni di Biles (“demons” in inglese può significare anche “cattivi pensieri“), è probabile che non ci sia posti neanche il problema se tale traduzione fosse consona oppure no. In effetti, nei romanzi come nelle nostre narrazioni quotidiane, chi ha un problema mentale è un “pazzo”, uno “squilibrato”, un “folle”, uno da cui stare alla larga. Appunto, un “demone”.

    Titolo del Times

    La Biles, dunque, ha aperto uno squarcio su una fitta tenda di ipocrisia. Un gesto che trova la sua ispirazione anche in Naomi Osaka e nel suo ritiro dal Roland Garros, come ha avuto modo di ribadire la stessa ginnasta americana, in conferenza stampa.

    Di salute mentale se ne deve parlare e bisogna affrontare il tema con assoluta maturità e lucidità, provando a dare risposte e soluzioni concrete, sostenendo chi ne ha bisogno e, soprattutto, chi non sa ancora di averne.

    Per questo, a Simone Biles bisogna dire grazie. Grazie per aver avuto il coraggio di trattare un tema così delicato quanto importante.


    Chi segue il blog o il sottoscritto da diverso tempo sa che del tema della salute mentale ne parlo da diverso tempo. Da ultimo, era stato oggetto della prima puntata del mio podcast, Ithaka. La trovate sulle principali piattaforme di streaming.


  • Vaccinare. Vaccinare. Vaccinare.

    Vaccinare. Vaccinare. Vaccinare.

    Non bisogna allentare la presa sui vaccini.

    Questo piano B del Viminale, di cui conosciamo gli stralci, per il quale il green pass obbligatorio verrebbe sostituito dalle sanzioni amministrative dissuasive verso i NoVax, non mi convince.

    Ci saranno davvero i controlli? Si faranno sanzioni a ogni singolo non vaccinato che non rispetti le norme?

    Io avrei adottato la linea dura: green pass obbligatorio per entrare in qualsiasi luogo aperto al pubblico e nei luoghi di lavoro, con sanzioni a chi non rispetta le regole.

    Non vuoi vaccinarti? No problem. Però non vai a lavorare, non vai in palestra, al supermercato (ci mandi un vaccinato), dal parrucchiere e in nessun’altra parte.